La Corte Territoriale Piemontese, con la sentenza pronunciata in data 12.07.2013, conferma i precedenti giurisprudenziali resi in materia di responsabilità dell’intermediario finanziario, ribadendo il principio a mente del quale, nell’ambito di una lettura costituzionalmente – art. 47 Cost. – e comunitariamente orientata – artt. 19 ss. Direttiva 2004/39/CE – l’adozione di tutte le incombenze informative da osservare nei confronti dell’investitore deve rispondere a criteri non burocratici, ma di effettività e concretezza.
La ratio sottesa alle norme disciplinanti la responsabilità dell’intermediario finanziario intende tutelare la parte debole del rapporto contrattuale, ossia l’investitore, attraverso obblighi di informazione finalizzati a garantire un investimento consapevole, tramite una informativa effettiva, concreta e comprensibile.
Le conseguenze di una tale impostazione giuridica si riflettono su tutti gli obblighi di informazione contenuti in via generale nel D.Lgs. n. 58/1998 (TUF), e in via regolamentare nella normativa di attuazione della Consob di cui al Regolamento n. 11522/1998, applicabile ratione temporis.
Per quanto riguarda l’art. 29 del Regolamento citato, la concretezza dell’informazione si realizza laddove l’investitore sia informato per iscritto delle ragioni sottese all’inadeguatezza dell’investimento rispetto al suo profilo finanziario, tenuto conto dei suoi obiettivi di investimento, della sua situazione finanziaria, della sua propensione al rischio e della sua esperienza in valori mobiliari.
“L’avvertimento dell’inadeguatezza deve essere specificamente calato nella realtà della situazione e, come tale, deve essere idoneo ad ingenerare nei clienti la consapevolezza necessaria”.
Assunta tale esaustiva informazione scritta, laddove il cliente intenda procedere comunque all’investimento inadeguato, il soggetto intermediario potrà darvi seguito solo dopo aver ottenuto il consenso scritto del cliente. Senza tali adempimenti formali e sostanziali il soggetto intermediario ha il divieto assoluto di formalizzare l’investimento.
Ne consegue, coerentemente con tale ratio,che un’avvertenza di inadeguatezza dell’operazione formulata in modo generico e formale non assolve l’operato del soggetto intermediario, contrastando con il dettato normativo che vieta la burocratizzazione dell’informazione.
L’obbligo testé citato non viene meno laddove il cliente, all’atto della compilazione del suo profilo finanziario, come previsto dall’art. 28 co. 1 lett. a) del reg. Consob n. 11522/1998, abbia opposto il rifiuto a rendere le informazioni richieste.
Anzi, conferma la Corte Torinese, a fronte della mancata profilatura del cliente ricorre una situazione di particolare cautela nell’agire della Banca e si rafforza l’obbligo in capo all’intermediario dovendo quest’ultimo assumere prudenzialmente a riferimento una propensione al rischio minima, una scarsa conoscenza degli strumenti finanziari e, di conseguenza, obiettivi di investimento orientati alla conservazione del capitale investito.
La Corte effettua una indagine del rischio connesso all’investimento fondata su più parametri di valutazione non essendo in tal senso sufficiente né l’indagine sul rating, né la correlazione (definita dalla Corte “lapalissiana”) “alto rendimento-alto livello di rischio”.
Ad avviso della Corte Torinese l’operato della Banca, quale operatore professionale, deve essere caratterizzato dalla diligenza “qualificata”. Conseguentemente è tenuto a svolgere una preventiva indagine del rischio in grado di individuare tutte le anomalie esistenti, al fine di consentire la cd. best execution.
Conferma, dunque, la Corte che, fin dal 2000 erano conosciute o comunque conoscibili dal sistema bancario – senza possibilità di alcuna giustificazione in caso di omissione – tre significative anomalie nell’andamento del gruppo Parmalat:
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una ingente emissione obbligazionaria pur a fronte di dichiarazioni in bilancio di rilevantissime disponibilità liquide;
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una esposizione debitoria superiore a quanto esposto dai bilanci evidenziata dalle istituzioni di controllo e segnalazione delle sofferenze;
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l’emissione delle obbligazioni Parmalat tramite consociate finanziarie estere al fine di aggirare la normativa nazionale ex artt. 2410 e ss. c.c..
La Corte d’Appello di Torino afferma che tali circostanze sono riconducibili alla ricostruzione storica del crack Parmalat e dunque al notorio, con tutti gli effetti che ne conseguono sul piano probatorio.
Sotto il profilo della prova del nesso causale, gravante sull’investitore, il Giudice del riesame fa proprio il principio già affermato dalla Corte di Cassazione, secondo il quale nell’ipotesi in cui l’inadempimento consista nella violazione di un obbligo di astensione (artt. 27, 28 co. 2 e 29 del Regolamento Consob n. 11522/1998), non rilevano le modalità di esecuzione dell’ordine bensì quest’ultimo in quanto tale; il che equivale a dire che in caso di inadempimento di tali obblighi il nesso causale può in sostanza ritenersi in re ipsa.
Corte d’Appello Torino – sentenza